Sara Spiro
SONGS & BORDERS – Michael Getman – Israele
Lo scorso 6 maggio è andata in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma una delle ultime performance della stagione della rassegna di danza contemporanea Orbita Spellbound, Songs & Borders.
La serata è stata volta ad indagare dinamiche identitarie, di appartenenza e di emotività umana.
Nel caso di Songs & Borders parliamo di un progetto di unione e rappresentazione della situazione dell’individuo sulla terra, che porta sul palco il vissuto di artisti provenienti da Israele, Siria, Libano, Germania e Norvegia. Proprio questa mescolanza culturale, intellettuale e religiosa permette di mostrare il focus della ricerca che persegue il coreografo e performer della pièce, Michel Getman,
Getman attua un processo di esplorazione basato sul corpo umano che attraverso campi quali l’identità, le situazioni politiche, lessicali, culturali mostra due lati della stessa medaglia: una ricerca di connessioni tra persone diverse e un’esclusione inevitabile dovuta alla lingua e alle differenze natie.
Le difformità vengono portante sul palco in un tripudio di condivisione. Sei donne, adulte, condividono lo spazio all’interno del quale creano narrazioni visibili a tutti. Le storie raccontate si esplicano tramite canti, balli, musiche appartenenti a ciascuna delle culture da cui ognuna di loro proviene.
Accade che queste si scontrino, incontrino, parlino e si confrontino.
Il palco è spoglio, rivestito solo di un tavolo, delle sedie e di un manichino fatto di metallo che diventa un vero e proprio personaggio inanimato mosso dalle donne all’occorrenza di mostrare un’incomunicabilità – o forse per contrapporre dei corpi reali con le loro forze e fragilità a un ammasso di ferro.
Performance come questa non sempre vengono accolte – soprattutto da un pubblico che si aspetta una coreografia solo danzata – con attenzione e coinvolgimento. Probabilmente le difficoltà nascono da una lontananza lessicale e culturale che porta a uno sguardo prettamente al movimento.
Andando a scavare per cercarne le fondamenta di significato che fanno scaturire ciò che vediamo, ci troviamo di fronte a una forte connessione con le radici, pur non capendole pienamente, sia delle artiste sul palco sia di colui che le ha portate lì. Sì, perché questo intreccio nasce dalla volontà di Michael Getman di esplorare le sue origini in quanto figlio di immigrati israeliani, ha sempre percepito la questione identitaria come enigmatica e direttamente connessa con lo stereotipo dello straniero considerato in modo negativo.
Grazie a Songs and Borders, ci possiamo confrontare anche noi spettatori con la nostra concezione del diverso e di quanto siamo disposti ad aprire i nostri confini per condividerli con il prossimo. Siamo capaci di rompere queste barriere accogliendo qualsiasi essere umano ci troviamo di fronte?
durata 35′
Coreografie: Michael Getman
Assistente coreografa e dramaturg: Yael Venezia
Performers: Marina Abzakh, Nira Agmon, Naveen Elias, Rabaa Halabi, Ronit Nahmias
Direzione delle prove: Ma’ayan Tsameret
Costumi: Renee van Ginkel
Pupazzi e scenografie: Ma’ayan Tsameret
Oggetti scenici: Ayelet Adiv
Produzione: Mia Chaplin
Organizzazione: Zachi Choen
Web design & Video editing: Idan Herson
Comunicazione Internazionale: Katherina Vasiliadis
Supportato da: Clore Center for the Performing Arts (IL); The Pais Lottery Foundation (IL); The Ministry of Sport and culture in Israel; The Choreographers Association (IL); Zygota Productions (IL); Goethe Institut (IL, DE), MART Foundation (USA / IL)
B-OR DER – Masoumeh Jalalieh – Iran
«Il canto di un uccello è piacevole all’orecchio umano, ma allo stesso tempo è segno della prigionia dell’uccello» è la poesia di Maya Angelou che – come si legge dal sito ufficiale di Orbita Spellbound – ha ispirato Masoumeh Jalalieh per la creazione della performance B-Or Der.
Sul palco del Teatro Biblioteca Quarticciolo viene mostrato in anteprima nazionale il lavoro di ricerca della coreografa iraniana.
La connessione con un uccello in gabbia emerge immediatamente quando, sola sul palco, Masoumeh Jalalieh, esplora dall’interno di un tessuto elastico che la copre integralmente, tutti i possibili movimenti che può fare il suo corpo.
La gabbia è fisica, diventa un confine tangibile e percepibile che non permette una totale libertà e visibilità di quello che succede – per noi spettatori dentro al tessuto, per la danzatrice al di fuori.
Le sbarre metaforiche citate da Jalalieh, sono figlie delle sue origini purtroppo notoriamente imbevute di repressioni, limitazioni dell’autonomia in particolare verso le donne e di coloro che perseguono la rottura dei confini imposti da politiche autarchiche e pratiche religiose estreme utilizzate per controllare il popolo.
Accompagnandosi a una base musicale neutra senza fronzoli né cambi di registro, la coreografa scopre il volto solo durante gli ultimi minuti culminanti della performance, seguendo il climax ascendente del movimento circolare che la porta a muoversi vorticosamente.
Tanti sono gli interrogativi sorti durante la visione dello spettacolo, come ad esempio il perché della scelta di un’unica immagine visiva proposta allo spettatore: un corpo incastrato all’interno di un involucro marrone; oppure per chi era pensata la performance – se era pensata per qualcuno.
Queste domande però, quando si tratta di performance, sono spesso inutili e senza risposta poiché non importanti per connettere il pubblico a ciò che sta guardando.
In questo caso ci si sente intrappolati, si percepisce la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità di movimento.
Potremmo andare avanti per ore paragonando questa sensazione di costrizione a gabbie storiche, culturali, fisiche e mentali ma l‘importante è esserne travolti, imprigionandoci anche noi – spettatori – insieme alla danzatrice cercando di capirne l’emotività e le sensazioni provate.
durata 20′
Coreografia: Masoumeh Jalalieh
Ricerca sul movimento: Soolmaz Shoaie/Zahra Roostami, Masoumeh Jalalieh.
Musiche: Payman Abdali
Drammaturgia: Ines Minten
In collaborazione con STUK Leuven, SPAM! & Semi Cattivi