Francesco Fazzi
Analisi critica della mostra Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, Palazzo Reale, Milano
Nicolas Ballario: Dobbiamo scegliere di cosa parlare
Angela Vettese: Scegli bene
NB: Il corpo
AV: Il corpo?
NB: No?
AV: Certo
NB: è un movimento?
AV: No
NB: Non è un movimento?
AV: è un problema
(a cura di) Il giornale dell’arte,
Capire l’arte contemporanea: Angela Vettese con Nicolas Ballario, 2021
Nel podcast Capire l’arte contemporanea, a cura del Il giornale dell’arte, Nicolas Ballario intervista la critica d’arte Angela Vettese, autrice dell’omonimo libro[1], in occasione della tredicesima edizione di quest’ultimo. Nell’intervista effettuata allo scopo di sfiorare le tematiche centrali per la fruizione e comprensione dell’arte contemporanea, il corpo è collocato in una scomoda e complessa argomentazione. Il corpo, sostiene Vettese, è un problema, è un agglomerato di radicalità traumatiche, di istanze nefaste, nodi da sciogliere. Ne è un esempio a tal proposito, la mostra Corpus Domini: dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, curata da Francesca Alfano Miglietti presso Palazzo Reale a Milano, inaugurata il 27 Ottobre e visitabile fino al 30 Gennaio 2022. Già dal titolo è possibile dedurre quanto le criticità e le valenze simboliche che nei secoli hanno abitato il corpo siano centrali nello snodarsi di questo percorso tematico-espositivo. Una perenne ambivalenza tra attribuzioni sacre e profane – riscontrabili già nell’intestazione – permettono di esplorare spazi critici e storici inerenti ai martiri, ai corpi sofferenti, ai corpi statuari e ancora a fisicità belliche, corporeità che indagano la queerness ancor prima del dilagarsi di scritti teorici a riguardo. La mastodontica planimetria degli spazi espositivi di Palazzo Reale, sede nota per mostre dirompenti e memorabili come La Grande Madre a cura di Massimiliano Gioni, coincide perfettamente con la mise en abyme del corpo nella sua più completa totalità storico-narrativa. Alfano Miglietti già nel finire degli anni ‘90 si era interessata a indagare le nuove artisticità dei body artists in Identità mutanti[2], in cui è possibile indagare i nuovi approcci e le ulteriori problematiche socio-politiche che portano avanti ciò che dilagava nelle performances degli anni ‘60 e ‘70, in cui il corpo viene messo alla gogna, diviene un veicolo perfetto per far sì che tutta l’intimità di un individuo divenga un’arma pubblica, una mina vagante.[3] È corretto tuttavia, parlare di body art già in riferimento a operazioni artistiche surrealiste e dadaiste. Basti pensare a Duchamp, il quale rasa la sua nuca a forma di stella in Tonsure 1919, per trasporre sul suo corpo un encomio all’amico Apollinaire, i cui ultimi scritti erano appunto intitolati “La tête étoilée”. Nella prima sala della mostra è la voce di Lea Vergine a guidarci verso una corretta stesura temporale e critica della corporeità. Transitando in questo primo spazio dedicato a Vergine, una teca posta orizzontalmente con all’interno tutti i suoi scritti, ingombra prepotentemente la sala, presentandosi come il primo corpo artistico in mostra. È quasi come se fosse la bara dove giace sia il corpo critico che quello fisico, della straordinaria donna che Lea Vergine è. Vergine, critica militante scomparsa un anno fa, è affiancata ad Alfano Miglietti, quasi in un commiato emotivo, alla curatela di questa mostra. Già in Identità Mutanti la critica napoletana di nascita, ne aveva firmato l’introduzione e suggellato quasi un passaggio di testimone all’autrice del libro, la quale in Corpus Domini sembra confermare l’intesa di tematiche, ma soprattutto il rapporto affettivo e di penna che le univa.
Gli studi di Lea Vergine in merito alla Body art costituiscono non solo le principali cartografie con cui orientarsi per analizzare il fenomeno della body, ma incarnano lo scandalo, l’oltraggio suscitato in seguito alla pubblicazione di Body Art e Storie simili[4], dalla cultura conservatrice, dall’arte strettamente accademica, nonché dalle “persone per bene”[5]– per citare un testo autobiografico di Vergine – lo stesso disdegno che avviene d’innanzi alle mutilazioni, all’autoerotismo e autolesionismo, legato a queste azioni performative. È peculiare l’interesse di Vergine a tale movimento, dedizione che le costa l’appellativo internazionale di ‘la critica della body’. Eppure la sua storia privata, caratterizzata da episodi famigliari cruenti e marchianti, non è così lontana dall’essere paragonabile a una di queste azioni performative, che culmina con la dedica alla madre nel libro prima citato: <<A mia madre Fina, unica superstite di una singolare famiglia, le cui vicende non sono state del tutto estranee al tropismo per gli argomenti qui trattati.>>[6]
D’altronde i corpi di questi artisti inseriti in un processo artistico e successivamente in una fenomenologia della crisi, della sofferenza non celata, rappresentano la mera vita. Ciò che viene posto dinnanzi allo spettatore è un’esperienza a lui ben nota, in quanto l’ha già vissuta: è un dramma quotidiano, è una nevrosi in procinto di essere curata, è uno stato di turbamento e angoscia, semplicemente è una voglia di amare ed essere amati, e soffrire con tutto il corpo per un amore non corrisposto.[7]
Allo stesso modo ciò accade in Corpus Domini, nonostante non sia presente alcuna azione performativa, ma bensì la traccia che quest’ultima ha lasciato su un corpo e nello spazio che il corpo ha abitato e transitato. Di rimando lo spettatore è di fronte ad azioni avvenute in un passato, oppure cristallizzate in una scultura iperrealistica, ma non per questo il coinvolgimento, il dramma corrisposto o il ripudio per ciò che si sta osservando non avviene. Attorno agli scritti di Vergine sono posti, quasi come baluardi o santi protettori della salma in questa sala d’ingresso-camera ardente, gli artisti ‘atavici’ della tematica del corpo. Gina Pane, Carol Rama e Urs Lüthi, possono essere considerati i principali fautori di battaglie sul loro stesso corpo e sul corpo pubblico, collettivo. I primi disegni di Carol Rama, precedenti alla sua svolta informale, sono accostabili a degli studi anatomici dell’orrore oppure in termini performativi, delle documentazioni di azioni artistiche avvenute, a delle briciole corporee. Protesi, sedie a rotelle, fiori recisi e posti come corone sulle fronti di donne erotiche, dallo sguardo bambinesco e folle.
Ciò che è rappresentato in queste opere installate in cornici nobiliari, che alludono a un’aristocraticità in decadenza, è l’infanzia di Carol Rama , intagliata dal suicidio del padre, dal ricovero in cliniche psichiatriche della madre.[8] Un’infanzia rotta, frammentata come gli arti che l’artista disegna; come le donne rappresentate, che sono sospese in un turbamento oppure in un orgasmo, deducibile dalle pose irriverenti con cui sono rappresentate: in procinto di far la linguaccia, rivolta all’osservatore; la posa troppo maleducata per un bon ton della Torino degli anni ‘30, accennata nelle cornici che appaiono barzellette davanti a tale dis-grazie rappresentate. Azione Sentimentale di Gina Pane è forse una delle opere-icona di progettualità artistiche in cui il corpo è materia viva e bruciante. Pane, è rappresentata in una sequenza di scatti dell’azione performativa, mentre è in procinto di pungere il suo braccio sinistro con le spine di alcune rose che formano un bouquet maritale, precedentemente introdotto in scena.
L’artista italo francese è rigorosamente vestita di bianco, scelta cromatica presente in ogni sua operazione artistica; scelta ponderata affinché il sangue che fuoriesce dal suo corpo bucato, trafitto di volta in volta da lei stessa, tramite oggetti contundenti posti su scale, oppure lamette, possa imprimersi sul candore illibato con cui inizialmente Pane si presenta al pubblico[9]. Il corpo di Pane è un corpo santo, il corpo di un martire, in quanto tramite il sacrificio, in termini di sangue versato e sofferenza corporea messa in scena, avviene la guarigione, la santificazione appunto. Ciò che sottende alle azioni di Gina Pane è un rimando all’espiazione di una colpa primordiale, tramite una sofferenza dilaniante, concetto che trascina in sé l’exemplum della punizione divina inflitta ad Adamo e Eva, i quali a causa del loro peccato perdono l’incorruttibilità del corpo, causando quasi <<una sorta di caduta che si ripete in ciascuno, quasi che ogni uomo fosse ogni volta cacciato dal paradiso>>[10].
In tale analisi è possibile ricollegarsi dunque al sottotitolo della mostra. Il corpo glorioso, santificato, incorruttibile, è nel corso della fruizione della mostra esposto a una vulnerabilità e fragilità, nonostante nell’avanzare del circuito espositivo siano sempre più presenti corpi iperrealistici e dunque statuari, integri.
Robert Gober, tenta di guarire questa corruzione dell’anima, tramite i suoi famosi arti in cera rivestiti da indumenti infantili, oppure da tessuti che rimandano a divise d’ufficio, gentlement impiegati in ambiti manageriali. Gli arti corporei di Gober sono l’espressione di un corpo spezzato proprio degli anni ‘80, corpo che funge da ricettacolo di una stigmatizzazione che dilaga nelle subculture e negli individui omosessuali e transgender, in seguito alla feroce mancanza di una presa di coscienza del governo Regan, davanti alla problematica dell’HIV. Gober si collega alla spiritualità di Pane in quanto anche nelle sue opere è rintracciabile un linguaggio cristiano, pregno di simbolismi . L’artista proietta nei suoi lavori l’asfissia cristiana che caratterizza la sua famiglia natia, sintetizzandola in sculture perturbanti realizzate in cera, accostabili a ex voto anatomici presenti e tutt’ora visibili in santuari come la Madonna dell’Arco a Napoli oppure il Nosse Senhor a Salvador di Bahia in America.
Il fenomeno antropologico degli ex voto interessa numerosi studi antropologici e sociali, da sempre disprezzato dagli storici dell’arte proprio per la volgarità, la mancanza di rigore nella composizione di questi oggetti utilizzati per ringraziare il divino di una grazia ricevuta, oppure per propiziarsi un miracolo in un dialogo intimo e informale con un santo protettore. La cera utilizzata da Gober rientra nell’analisi materica effettuata da Didi-Huberman nell’analizzare gli ex voto anatomici in cera posti sui soffitti di numerosi santuari. La cera consente <<un risparmio di tempo psichico>>[11], lo zoppo dona infatti la raffigurazione della sua gamba in cera per incarnare il suo voto di camminare come si deve. La cera può allungare il tempo del voto, incarnando perfettamente i desideri, le preghiere dei supplici, perché essa stessa è materiale carnoso, malleabile, costituendo un <<guadagno di carne>>[12], quella carne corporea che imita e a cui ritorna inevitabilmente. L’intento dell’artista è dunque forse quello di fabbricare un voto, affinché il morbo cessi, o una qualche ingiustizia socio-politica venga riscattata. Il tutto avviene in una cornice naïf, un altarino che inscena quasi un centro-tavola natalizio, un bricolage eseguito da una creatività infantile, proprietaria dell’arto posizionato al centro della composizione dotato di cerotto e scarpa. Siamo all’interno di un ricordo intimo, sospeso in un linguaggio onirico. Ci muoviamo – ancora – in una mostra che paradossalmente potrebbe avvenire nelle nostre case, nei nostri immaginari o sogni di tutti i giorni.
Ne è la prova il ‘dialogo tessile’ costituito dalle opere di Christian Boltanski e Vlassis Caniaris. Il primo, porta in mostra una sua opera iconica, una montagna di abiti cromaticamente scuri che alludono all’oggetto tessile come memorabilia di un evento luttuoso, sconvolgente. Boltanski è noto per la sua ricerca in merito a corpi collettivi attraversati da disastri bellici, olocausti, da irregolarità socio-politche. La modalità della narrazione tuttavia, ha come espediente l’oggetto intimo, l’indumento personale, che inserito nella pluralità dell’accumulo, genera un unico corpo emotivamente privato e allo stesso tempo fortemente collettivo. Similmente Caniaris realizza dei manichini in rete metallica che veste di abiti comuni. I soggetti esposti sono relegati in un punto preciso dello spazio, quasi a farsi forza l’un l’altro perché smarriti, non consapevoli del luogo e della direzione di un viaggio esasperante intrapreso. Tematicamente affine a Boltanski, l’artista greco riflette sulla crisi economica e migratoria attraversa dalla Grecia in seguito all’occupazione nazista. Ciò che ne scaturisce sono delle anti-corporeità. Sia nel caso di La Terril Grand-Homu 2015, che di Where’se North, Where’se South? 1988, il corpo non è presente. Siamo di fronte a una smaterializzazione della corporeità sin ora ben presente agli occhi del visitatore. Anche nel caso di Caniaris il corpo è abbozzato dal materiale metallico, può essere paragonabile a un manichino, ma ciò che ne risulta è un involucro vuoto, su cui sono adagiati abiti quotidiani. L’assenza del corpo determina una sua più imponente presenza che apre a criticità storiche, a sofferenze corporee causate da regimi, a dolori storicizzati, dunque reali. Susan Sontag in Davanti il dolore degli altri afferma:
Quando osserviamo da vicino un orrore reale, allo shock si aggiunge la vergogna. Forse le sole persone che hanno il diritto di guardare immagini di sofferenze reali così estreme sono quelle che potrebbero fare qualcosa per alleviarle – per esempio, i chirurghi dell’ospedale militare in cui la foto è stata scattata – […] Noialtri, che lo vogliamo o no, siamo tutti voyeur. [13]
Si è voyeuristi difronte al divampare di un dolore non censurato, anche davanti all’opera Unloved (bambino sulla spiaggia) 2018, di Franko B, artista di origini italiane conosciuto per le sue performance estremizzanti, incentrate su un’esasperazione del proprio fisico. In mostra l’artista non presenta l’esplicito sangue che sgorga sul suo corpo nudo, ma alcuni ricami realizzati con la lana, Stiched Drawings 2018, raffiguranti figlie e figli della strada, di cui è possibile fruirne solo tramite sviste corporee; in Valige 2018-2019, il tema della migrazione, dello smarrimento, a ripresa dell’opera citata di Vassil Canieris, ripristina l’immaginario reale e quotidiano noto all’osservatore. Una serie di valigie di diverse epoche, sono trafitte da simbologie mediche: cuori, croci di pronto intervento, oppure un triangolo specchiante.
L’estetica di Franko B cozza con quella presentata in questa sede, in quanto è rivestita da un’apparente carineria, una dolcezza innocente. Ma questo rende ancora più perturbante la visione d’insieme, sovrastata dalla centralità del corpo mutilato di un bambino posto su un tavolo d’autopsia, cortocircuito visivo e linguistico, se si presta attenzione allo scenario della spiaggia, suggerito nel titolo dell’opera. Il corpo iperrealistico del fanciullo presentato da Franko B è un corpo che sgorga un sangue invisibile ma ben noto nella coscienza pubblica. È il sangue dei migranti, del colore acre di cui le acque del Mediterraneo si macchiano costantemente, il sangue dell’indifferenza. È con noncuranza e con voyeurismo che lo spettatore tenta di andar oltre, di giungere alla fine di questa mostra, per poi esser colto di soppiatto da un’apoteosi conclusiva, denotata dall’installazione di AES+F, Mare Mediterraneum 2015-2018. Un vortice di sculture in porcellana in miniatura raffiguranti episodi mitici, biblici o pop, inerenti all’immaginario della spiaggia, della vacanza idilliaca, costringono il visitatore a un’ultima riflessione prima di lasciare Palazzo Reale. L’opera già presentata in occasione di Manifesta 12 a Palermo nel 2018, è un potpourri di immaginari popolari appartenenti alla gay culture o ai cicli mitici del viaggio quali l’Odissea. Da sfondo alle sculture un visual marino sottende a questo valzer circolare visivo. L’opera caotica del collettivo russo con prepotenza confonde lo spettatore e lo costringe a una sovrascrittura narrativa: tramite un’estetica pop il mare diviene agglomerato di sessualità, identità, culture, religioni ed etnie. Una parvenza di leggerezza sembra voler congedare i visitatori di Corpus Domini.
Eppure è impossibile dimenticare ciò che si è visto, o meglio dire ciò che si è ri-visto, risvegliato in noi stessi. Si è più coscienti forse di quanto l’intimo, il privato siano un fattore politico; di quanto l’indifferenza sociale annulli una fisicità che permane più forte di prima, in mezzo a piazze, strade, marciapiedi in un agire di concerto, che diviene un esercito polifonico.[14] Mentre Corpus Domini inaugura le sue corporeità artistiche, nel Senato italiano alcuni corpi politici deflagrano il diritto a un’ identità corporea e sicura, proposta dalla legge Zan. Come Vettese asserisce nel podcast citato all’inizio di questo testo e come si può evincere a conclusione della visita di questa mostra qui proposta, il corpo, il nostro e il vostro, rimane un gran problema, che ancora dobbiamo avere il coraggio di voler risolvere.
Note
[1] A. Vettese, Capire l’arte contemporanea, Allemani, Milano 2021
[2] F. A. Miglietti, Identità Mutanti. Dalla piega alla piaga, Mondadori Bruno, Milano 1997
[3] T. Warr, The artist’s body, Phaidon 2011, pp. 18-43
[4] L. Vergine, Body art e storie simili, Skira, Milano 2000
[5] C. Gatti, L. Vergine, L’arte non è faccenda di persone per bene, Rizzoli, Milano 2017
[6] Cit. L. Vergine, Body art e storie simili, Skira, Milano 2000
[7] Ibidem, pp. 7-27
[8] https://archiviocarolrama.org/carol-rama/, consultato il 28/11/2021. Si veda anche G. Besson, Carol Rama casta sfrontata stella, Prinp Editore, Torino 2012
[9] L. Vergine, Ininterrotti transiti, Rizzoli, Milano 2001. Si veda anche S. Duplaix, Gina Pane (1939-1990). È per amor vostro: l’altro, Giunti Editore, Milano 2012
[10] G. Agamben, Il Regno e il Giardino, Neri Pozza Editore, Milano 2019
[11] G. Didi-Huberman, Ex voto, Raffaello Cortina, Milano, 2007
[12] ibidem
[13] S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Edizioni Nottetempo, Milano 2021, p.55
[14] J. Butler, Alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Edizioni Nottetempo, Mialno 2017